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Ad ogni oggetto è associata un’immagine. La percezione di questa immagine riserva delle sorprese a chi ha creato l’oggetto e a chi ci ha lavorato.

Numerosi sono gli elementi che costituiscono il prodotto finale. Ma sarebbe un errore non tener conto della prospettiva sensoriale

 

Prendiamo il nostro viso: innegabilmente, è il prodotto di noi stessi. Lo vediamo tutti i giorni più volte al giorno, eppure ogni volta è un po’ diverso – a seconda dell’umore, dei pensieri, di quanto abbiamo dormito, di dove stiamo andando, di cosa ci aspetta più tardi.

Ma non ce ne accorgiamo. Dentro di noi rimane fissato un ritratto fatto di ovale del viso, occhi naso bocca sopracciglia, conosciamo a memoria ogni difetto, per visibile o invisibile che sia, come giudici sensoriali super addestrati pensiamo di essere perfettamente in grado di misurare l’intensità di quel difetto o di quel pregio, certi di conoscere ogni nostro tratto, di sapere quanto si avvicina o si discosta dagli standard oggettivi. Ma quello che invece non conosciamo è l’impatto della nostra intera immagine sugli altri, dunque la valutazione soggettiva che ne viene data.

Nel corso di un’articolata azione di marketing volta a rafforzarne l’immagine e la loyalty, un noto brand multinazionale ha voluto fare un piccolo esperimento, invitando delle donne che non si conoscevano a passare qualche tempo insieme, a coppie, per una piacevole conversazione nel corso della quale ognuna parlava di sé. Al termine, le due donne si separavano e ciascuna – con l’aiuto di un disegnatore –  ritraeva se stessa e ritraeva anche l’altra – quindi alla fine ogni donna disponeva di un ritratto e di un autoritratto.  Se pensate che i due disegni risultassero identici, o almeno somiglianti, vi sbagliate di grosso…. L’autoritratto, peraltro sempre piuttosto impietoso, si concentrava infatti sui difetti percepiti che diventavano dunque gli elementi salienti, mentre il ritratto eseguito dalla compagna non solo non li coglieva, ma andava a mettere in luce ben altri aspetti, molto più piacevoli, che erano emersi non tanto dall’osservazione del volto quanto dall’interazione personale. In altri termini, dall’immagine dell’intero sé (e non solo del volto) così come veniva filtrata attraverso l’esperienza personale del momento.

Dunque da un lato una valutazione “fondamentalmente” oggettiva, fondata su una “misurazione” e una “valutazione di gradimento” dei singoli elementi del proprio volto; dall’altro una valutazione “prevalentemente” soggettiva, che andando a mixare questi singoli elementi e filtrandoli attraverso la propria personale prospettiva sensoriale, produceva un risultato diverso ma certamente più in linea con la realtà percepita.
Quasi come accade nella valutazione di un prodotto, dove il gradimento espresso dal consumatore si fonda non soltanto sulla sua composizione, ma su tutta una gamma di situazioni d’uso e di emozioni che lo accompagnano.