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Per gli antichi greci era il “kalòs kai agathòs” la fondamentale unità del bello e del buono. Per la società odierna, si chiama spreco alimentare

Così come “mangiamo con gli occhi”, si può dire anche che “facciamo la spesa con gli occhi”, e non a caso nei negozi e nei supermercati si fa di tutto perché i prodotti esposti attraggano la nostra attenzione facendo leva sull’impatto visivo. Quante volte ammiriamo sui banchi di vendita frutti e ortaggi ineccepibili nella forma e nelle dimensioni, senza una macchiolina né un’ammaccatura? Per raggiungere questa perfezione, ogni anno i coltivatori gettano via quantità incredibili di frutta e verdura (quasi un terzo della produzione mondiale) la cui unica colpa non è quella di essere prodotti cattivi o poco salutari, ma semplicemente di essere brutti!  Perché al consumatore deve arrivare solo ciò il cui aspetto è consono agli standard richiesti.

L’Ugly Food Movement, nato di recente, ribalta le regole del gioco, propugnando non solo che brutto si può, ma che brutto è ancor più buono. Europa e Australia stanno reagendo con favore a questo movimento, che contribuisce ad affrontare il problema degli sprechi alimentari. Gli alimenti “brutti” sono quelli che grossisti, venditori, ristoratori e consumatori tendono a rifiutare a causa del loro aspetto, fattore che nulla ha a che vedere con il loro sapore, ma che produce una perdita di denaro considerevole, oltre che rappresentare appunto uno spreco inaudito. Per capirci, fino al 2014, l’anno Europeo contro gli Sprechi Alimentari, la UE vietava la vendita di prodotti di misura o forma non conformi agli standard della quasi perfezione: basti pensare che un mazzo di asparagi non poteva andare sul mercato se almeno l’80% del gambo non era verde, e per i cetrioli si misurava la curvatura al millimetro. Commercializzare i cibi “brutti” diventa oggi una risposta al problema.

I Cibi Brutti avranno bisogno di tempo e di un buon supporto di marketing per essere accettati dai consumatori dei Paesi sviluppati, sottoposti ad un condizionamento verso la “perfezione” che va avanti da decenni e abituati a individuare la qualità nell’assenza di difetti visibili. Ma a differenza degli alimenti biologici, che solo negli ultimi anni hanno iniziato a decollare nonostante già dagli anni ’80 se ne propugnasse la salubrità, gli alimenti brutti hanno un grande vantaggio: quello di costare molto meno sia al consumatore che al produttore, che non li deve più eliminare alla fonte e che non deve nemmeno sostenere i costi di ritiro di quelli che i rivenditori ritengono non consoni.

Ma per andare sul mercato e incontrare il favore del pubblico, questi prodotti non potranno certo chiamarsi “brutti” … In Francia sono diventati prodotti “senza gloria”, oppure “deliziosamente imperfetti”; in Canada “naturalmente imperfetti”, in Inghilterra si è optato per il termine “wonky” al posto di “ugly”, un termine più informale che fa pensare ai nostri “malfatti”, per rimanere in tema alimentare. Qualunque sia il termine prescelto, non c’è dubbio che la lotta agli sprechi sia ancora agli albori, ma stia affinando le sue armi!