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Irlanda, prima metà del 1800: la vera minaccia alla crescita economica del Paese? Una tazza di tè

Non più rilassante “tea time” davanti al caminetto ma rivoluzione sociale e primi segnali di femminismo: una storia legata al tè che non tutti conoscono.

Da uno studio condotto dall’Università di Durham e pubblicata sulla rivista accademica Literature and History, risulta che agli inizi del diciannovesimo secolo i riformatori irlandesi avvertirono l’esigenza di limitare il dilagante fenomeno della tazza di tè.  Se si volevano salvaguardare l’economia e le buone regole sociali dell’Irlanda, era impensabile che le donne di umile estrazione “alzassero i piedi da terra” per sorseggiare il loro tè, invece di darsi da fare a preparare una cena sostanziosa per gli uomini che rientravano da una dura giornata di lavoro.  Per queste donne concedersi un momento di pausa con la tazza in mano significava soltanto sprecare tempo e denaro, sottrarsi ai propri doveri, alla cura della casa e della famiglia, trascurare il povero marito. Essendo le donne a farsi carico di questi compiti, il danno all’economia nazionale era palese.

I riformatori dell’epoca, tutti provenienti da classi medio alte o alte (vale la pena di sottolinearlo), si sforzarono ricorrendo a vari mezzi di convincere operai, manovali e contadini ad abbandonare questa pericolosa abitudine per il bene della nazione, dichiarando a chiare lettere che bere il tè era un qualcosa di assolutamente inopportuno, un fenomeno dalle conseguenze incontrollabili.

Si pubblicarono così opuscoli da distribuire alle famiglie che vivevano nelle aree rurali e nelle zone popolari, nei quali bere il tè veniva definito come un lusso che le donne delle classi più umili non potevano permettersi. Un libello datato 1811 racconta la storia di due amiche: ad un certo punto una raccomanda all’altra: “Non è forse vero che ogni moglie deve lavorare in casa e fuori casa, e sostenere il povero marito? Mettitelo bene in testa, e dimentica per sempre quel maledetto tè”.

Come se non bastasse, si ricorreva anche allo spauracchio della droga: poiché il tè era una sostanza esotica originaria della Cina, era evidente che nel tempo avrebbe provocato dipendenza e chissà quali altre conseguenze. Oltre dunque a dare assuefazione, questa esecrabile abitudine induceva a desideri illeciti, e chi si ostinava a non rinunciarvi correva il rischio di essere tacciato di appartenenza ad una qualche società segreta o di nutrire simpatie rivoluzionarie.  Accuse gravi, in un periodo politicamente delicato a causa dei mutati rapporti tra Gran Bretagna e Irlanda (nel 1801 nasceva il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda).

Dal loro canto, anche i riformatori inglesi, che avremmo immaginato indignati da questa propaganda, non vedevano di buon occhio la diffusione del tè a tutta la popolazione. Nel timore di correnti sotterranee volte a sovvertire l’ordine sociale ed il blindatissimo sistema gerarchico della nazione, si arrivò anche in Inghilterra a sostenere che la bevanda rappresentasse una minaccia al regime alimentare dei britannici.  In realtà per la Gran Bretagna il vero problema non era costituito tanto dal tè, quanto dallo zucchero, che proveniva dalle piantagioni nei Caraibi e nel Brasile: preoccupavano infatti le possibili connessioni ideologiche con la manodopera degli schiavi africani, l’antischiavismo e l’idea di “egalité” propugnata dalla Rivoluzione Francese.